rimedio
di ammaestramento, agli ingenui, di castigo e di flagello ai viziosi.
Tutto sta dunque a saperle svelare con decenza.
Emilio Zola, che è pur sempre decente nella forma, ci presentò in Nanà
una donna che nella sostanza non lo poteva essere del certo. Puttana
sbracata, rotta ad ogni turpitudine, in un ambiente di cinismo e di
depravazione, per conservarsi vera, e reale doveva riuscire per forza
molto indecente.
Ora se, partita da Parigi e capitata per caso a Milano sullo scorcio del
1869, la Nanà di Zola si fosse conservata tale e quale ce l'ha presentata
il romanziere francese, io dal canto mio non avrei fatta certamente la
fatica di ricominciarne la storia da lui lasciata a quel punto in sospeso.
Non l'avrei fatto, ancorchè avessi potuto pensare che per quanto essa
fosse rimasta la stessa sgualdrina, pure le differenze di ambiente, di
influssi, di contorni di conoscenze dovevano dar luogo ad altrettante
differenze di linee, di tinte, di chiaroscuri e di avvenimenti.
Ma Nanà giunta a Milano non era più nè poteva essere più la stessa
donna ch'ella era a Parigi. Io l'ho conosciuta nei pochi mesi che stette
nella mia città, l'ho studiata e ho trovato che il mutamento avvenuto in
lei era cosa degnissima di studio attento e profondo, e che il mondo
milanese, che s'aggirava intorno a lei sarebbe stato un vero peccato
mortale se lo si fosse trascurato e non si fosse pensato da alcuno a
portarlo innanzi ai lettori fotografato e caldo in una fisiologia di
costumi contemporanei.
Quella cocotte francese, sfinge non egiziana metteva tanta suddizione e
pur tanta concupiscenza nel cuore di certi nostri giovani i quali colle
dame e colle crestaie concittadine si mostravano audacissimi, e ha dato
una tinta così speciale ai fatti; della vita milanese e ai caratteri delle
persone colle quali ebbe a che fare, nei pochi mesi di sua residenza, che
bisognerebbe essere proprio un balordo per non cavarne un libro
interessante.
In quanto a lei, chi avrebbe detto che nel nuovo ambiente milanese,
dovesse apparire assai diversa da quello che ce l'ha descritta e
tramandata lo Zola!
Nessuna donna forse ebbe più di Nanà le doti che si attribuiscono al
camaleonte; nessuna più di lei sapeva trasmutarsi da un giorno all'altro,
e da abbietta cortigiana diventar magari una signora rispettata e
superba.
Ed ecco perchè a me è venuto il grillo di ripigliar da Zola istesso questa
donna stranissima, che riuscì a miei occhi un tipo unico di figlia di Eva
del nostro tempo, un problema di isterismo a freddo, una
personificazione dello spirito scacciapensieri, una sintesi di
puttanesimo rapace, un'epopea: di calcolato disinteresse, un campo
aperto di capricci, di estri, di fantasie, di voglie, di brame, di vanità, di
ambizioni, di vaneggiamenti, di simpatie, di antipatie, di libidini, di
freddezze, di affetti, di passioni in continua contraddizione con sè stessi;
anzi in continua ribellione fra loro, un tipo di avarizia, un mostro di
prodigalità, un ecatombe di toilettes, un entusiasta del risparmiare, un
apoteosi di poltroneria, un prodigio di attività, un iperbole di egoismo,
un miracolo di buon cuore, una iena pazza di ferocia, un'incapace di
veder soffrire una formica, una capace di ripetere con Brillat Savarin
che in una tal salsa avrebbe mangiato volentieri suo padre!
Un ultimo avvertimento, perchè io bramo sopratutto di essere sincero.
Qualche lettore, in questo mio nuovo studio della vita milanese
contemporanea, troverà delle scene che non gli giungeranno
sconosciute. Un episodio infatti di _Nanà a Milano_ mi servì già a
scrivere una commedia che ebbe lieto successo sul teatro milanese.
Alcuni altri frammenti io pubblicai prima d'ora, in qualche giornale
italiano e non riusciranno nuovissimi a chi per caso li avesse già letti in
que' periodici. Io non saprei dir a questi signori se non che oggi li
ritroveranno, se non foss'altro, sotto la loro vera luce e al loro posto
preciso.
Chi poi credesse di trovare in questo libro, un dramma giudiziario con
simulazione di parto, che levò rumore grandissimo in questi giorni, si
pulisca la bocca.
CLETTO ARRIGHI.
Milano, 20 giugno 1880.
I.
Nell'ottobre del 1866, moriva in Milano di pneumonite il vedovo conte
Guglielmo O'Stiary dopo una fiera malattia di cinque giorni. Lasciava
un milione al suo unico figlio Enrico, di passa vent'anni, col patto
espresso nel testamento, ch'egli non potesse andar in possesso assoluto
e dispotico della sostanza se non compiuti i ventiquattro, come portava
la legge cho vigeva al tempo degli Austriaci.
In caso che l'erede avesse voluto fare opposizione al testamento il
severo babbo lo privava di tutto, e sostituiva nella eredità: _il Sacro
Cuore di Gesù_.
I titoli per diseredare suo figlio Enrico, secondo lui, non mancavano.
Egli era fuggito dal collegio dei Barnabiti, adolescente ancora, per
correre a combattere gli Austriaci con Garibaldi. Egli si mostrava
irreligioso e liberale. Egli sarebbe
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