pallore di quella faccia, rovesciata sulle spalle, illuminava le pareti; gli occhi, coperti di un velo diafano, come se i ragni vi avessero filato di sopra, spalancati e pieni di stupore, scintillavano fiocamente; del corpo, sepolto nella penombra, non scorgevo che indistintamente i contorni. A poco a poco svanirono del tutto, quasi assorbiti dalla oscurità: ma, in compenso, il lume del viso cresceva. Io l'affisava senza batter ciglio, per tema che, abbandonandola solo un minuto secondo, la visione dovesse sparire. La contemplazione indefessa la incatenava; ma fra essa e i miei occhi passavano dei globi e delle striscie di fuoco. Cominciavo a sentirli di soverchio stanchi, e già anche la faccia del cadavere si scioglieva: non ne restavano che due scintille sotto le palpebre; ma quelle due scintille (mi toccai per accertarmi che non sognavo) quelle due scintille non erano una illusione, quelle due scintille esistevano, quelle due scintille erano occhi veri, due occhi oscuri che mi guardavano, che mi guardavano fissi fuor da quel berretto infernale!...
Balzai nel mezzo della stanza e nello stesso tempo... diedi in uno scroscio di risa.
Il berretto rotolò per terra, e il più leggiadro topolino del mondo mi passò tra le gambe.
--Ecco uno, pensai, ricacciandomi fra le coltri, uno che ha avuto più paura di me.
E spento il lume, e mormorato come il bramino:
Tutto non è che ombra vana!
mi addormentai per non risvegliarmi che a mattino inoltrato.
VI.
Una delle più care soddisfazioni che si possano provare viaggiando, è quella del ritrovarsi, dopo un buon sonno, in un paese dove si è giunti di notte e di cui, per conseguenza, non avete che una idea complessiva raccolta nel buio, e, il più delle volte, affatto opposta alla realtà. Giacchè tenebra vuol dire esagerazione, così nel bene come nel male, nel brutto come nel bello. Svanita la fatica del corpo e l'animo riposato delle memorie del cammino percorso, le novità che vi circondano par che acquistino attrattive maggiori. Uscendo dalla nuova camera o solo mettendo il capo alla finestra, l'aspettazione e la curiosità sono soddisfatte, comunque sia la scena che vi si affaccia, nel modo stesso che se foste davanti ad un quadro nel momento in cui l'artista ne toglie il lenzuolo che lo nascondeva. La porta e la finestra danno sull'ignoto; un passo, e voi sapete, d'improvviso, a che vi hanno condotto le tante leghe percorse; un'occhiata, e vi decidete a restare o rifare il bagaglio:--parlo a coloro che viaggiano--come si dovrebbe sempre viaggiare--senza meta prestabilita.
Ora la mia finestra dava sul giardino del presbiterio; un giardino ampio e solcato, sparso da viali di varia larghezza che si intersecavano ad angoli retti, dando altrettanti confini alle aiuole. In quegli angoli sorgevano, sovrapposti a rozze basi di mattoni dei vasi di limoni di straordinario rigoglio, le cui foglie si distinguevano, pel luccichio, in mezzo a tutte le altre. Le viti sorrette da lunghi pali, erravano in tutte le direzioni, qui formando delle vie coperte sotto cui intravedevo panche e tavole di pietra scura, là abbarbicandosi ai muri che da due lati facevano ala al giardino. La vegetazione era splendida: maggio aveva fatto il suo dovere. Le macchie dei fiori, gialli, rossi, turchini, bianchi, viola, amaranto, si mescevano in pazza allegria colle infinite gradazioni del verde dei legumi; peri e pruni contorcevano i loro tronchi nodosi, avvolti completamente, come da un abito di festa, nei fiorellini color rosa e color pavonazzo del rhododendron e della glicina. Non saprei se fossero cresciuti per colmar panieri o per comporre ghirlande. Ma quel che dava l'intonazione a quel quadro di tutte le tinte eran le rose. Avresti detto che quella notte ne fosse venuta una nevicata: ce n'erano dappertutto, in alto, in basso, sulle pareti, in mezzo alle viti, sui tetti, per terra. Il dolce fiore di Venere non crebbe mai con tanta dovizia intorno ai templi di Lesbo. L'emblema della virginità, le rose bianche, nascondevano intieramente il fianco del presbiterio, non lasciando scoperto che quel tanto che era necessario per dar spazio alle imposte delle finestre: la mia ne era tutta incorniciata. La rosa delle quattro stagioni dominava dispoticamente, nelle siepi, la turba passeggiera dei tulipani, dei garofani e delle anemomi; le rosette dalle cento foglie, simbolo delle grazie, gremivano il chiosco posto a capo del viale più grande, e si cacciavano a destra e a sinistra sul muricciuolo di cinta, occhieggiando.
Era evidente che il curato amava i suoi fiori platonicamente; tranne forse per le funzioni solenni della chiesa, li lasciava crescere e morire sullo stelo. Infatti un tappeto di foglie tremolanti copriva i viali: tutti quei fiori pagavano il tributo della umana fragilità non all'uomo, ma alla natura e le loro salme, scomposte e sparpagliate dall'aria, volavano intorno in vortici odorosi, a somiglianza di farfalle: non avevo quasi aperta la finestra, che il pavimento della camera ed il letto ne erano
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