Il Designato | Page 8

Luciano Zuccoli
camicia lasciava il braccio nudo. Vidi passar negli occhi di Lidia il quesito insolubile di darmi la mano coprendo il braccio; ma cedette all'inattuabilit�� di tale disegno; nel movimento un po' precipitoso, le coltri si smossero, ed io le rattenni, e per stabilire e mantenere l'insperato vantaggio, rapidamente dalla poltrona passai sul fianco del letto, mentre istintivamente Lidia si ritraeva facendomi posto.
L'atto riusc�� seducentissimo nella sua schiettezza; la cortesia femminile dominava la verecondia per un lampo e si faceva incontro alla dolce necessit�� di cedere. Vidi e compresi, e la improvvisa intelligenza di quel moto mi provoc�� un brivido lungo.
Non ero pi�� n�� ilare, n�� tranquillo; consapevole d'una veniente tristezza. Il mio amore invadeva l'animo con tale veemenza, da sgominarlo, e farlo debole. Sorgeva misteriosa e meglio che da qualunque legge, da quella verginit��, tutta profumo e sorriso, ch'io stava per distruggere,--la comprensione di quanto io doveva alla fanciulla sacrificata.
All'ultimo baluardo, invece del goloso desiderio, io incontrava una tenerezza mesta ingiustificabile, da avaro innanzi al tesoro lungamente accarezzato. L'avaro non avrebbe voluto spenderlo, avrebbe voluto aspettar tuttavia, gioirne tuttavia, promettersi e negarsi la frenetica sensazione di tuffar le mani nell'oro, forse meritarsela di pi��.
Io soffriva dell'attimo fuggente e dell'irreparabilit�� della conquista.
Passai adagio le braccia sotto il busto di Lidia, attirandola a me. Ella teneva gli occhi chiusi e il suo pallore mi spavent��.
--Anima,--susurrai,--soffri?
--No,--rispose Lidia, aprendo gli occhi.
La luce delle due lampade si projettava troppo intensa. Lasciai Lidia e smorzai quella ch'era sulla tavola; ora la penombra si faceva tutelare e propizia; ma tornando al mio posto, di nuovo il pallore della fanciulla mi spavent��. Ella mi guardava smarrita, e un'agitazione ch'era male vero, cresceva in lei, le pulsava nel petto, nelle arterie, moltiplicandone il ritmo. Tent�� di togliersi alla mia stretta e si trov�� s��bito libera. Erta sul busto, colle braccia rigide che le facevano sostegno, rimase un attimo indecisa.
--Ho paura!--esclam�� poi.--Non per te, Sergio, ma ho paura! Perdonami!
Le salivano convulsi alla gola singhiozzi senza lagrime; chino su di lei, le mie mani sentivan le ciocche de' suoi capelli, morbide e lisce, disordinate per il guanciale. Non osavo muovermi n�� parlare; lucide, lancinanti, memorie di spose morte cos�� fra i primi amplessi del marito, mi si piantarono nel cervello. Ma come ella avesse intuita la mia angoscia superiore alla sua, Lidia mi gett�� le braccia al collo.
--Perdonami!--disse nuovamente.--Ho paura!
Noi ci cercammo le labbra, e al caldo contatto infine le lacrime di Lidia proruppero, mi caddero brucianti sulle mani, chiamarono le mie; la crisi quiet�� Lidia a poco a poco, lasciandola colla testa sul mio petto, gli occhi chiusi, da' cui angoli scorrevan deliziosissime e infantili le lagrime. Non so quanto cos�� rimanessimo, vittime d'un arcano fascino.
Quasi sentivamo i gravi silenzi della casa circondarci lentamente e addormentarci la coscienza dell'ora. Tutt'e due sulla soglia d'una felicit�� agognata, rimanevamo titubanti, malinconici e paurosi, perch�� nulla pi�� del presente doveva tornare. Ella s'era distesa nel letto, quasi calma; io la baciava adagio sui capelli, sugli occhi, sulla bocca, sul collo, sulle mani, naufragante in un'onda voluttuosa. L'avaro assaporava il suo tesoro che aveva anima e forma, e si sferzava col ricordo di tutte le caducit�� umane per togliersi al pazzo bisogno di serbare il tesoro intatto.
Quindi, la fanciulla ridivenne fiduciosa. E cos�� l'attimo fuggente si dilegu��.

III.
Parecchi anni addietro, al buon signor Pfaff, io aveva domandato un giorno:
--Perch�� non mettete un'epigrafe sul vostro ricovero di pace e di salute?
Il signor Pfaff m'aveva guardato senza rispondere, ed era stata la figlia a spiegargli il mio concetto.
La signorina Silesia Pfaff, dopo aver discusso alcun poco in dialetto grigione col padre, mi s'era rivolta dicendomi in italiano sgangherato che il padre non capiva e che se volevo porre un'epigrafe sul piccolo albergo, la dettassi a lei.
Fu cos�� che sul ricovero di pace e di salute lampeggi�� in lettere d'oro l'iscrizione:
VENITE, DOLENTES.
E i dolenti venivano, uscendo dalla ressa delle citt��, pallidi e smunti, e cercavano il silenzio, la vita semplice, l'armistizio di pochi mesi nella battaglia rabbiosa di tutto l'anno. E v'ero venuto io medesimo, ora curvo per la morte di mia madre, indimenticabile figura di donna bruna e nobile; ora freddo, caustico, per l'opprimente perizia degli inganni; ora scosso e attonito per la morte inaspettata di mio padre; ora vuoto ed aspro per diffidenza degli altri e di me stesso; e ogni volta, l'anima aveva ricongiunte le ferite, s'era dilatata nel silenzio, s'era compiaciuta di quella grande e libera solitudine.
Al caro luogo avevo prestata quasi una simbolica potenza di farmaco. Vi sognavo bene, come in citt�� non era possibile, e vi attingevo preziosi cumuli d'energia morale; talch�� nelle gioje lo desideravo per meglio compenetrarle, e nei grandi dolori per essere umile innanzi a superbi spettacoli di paesaggio.
L'albergo del signor Pfaff era situato fra Spl��gen e Andeer, sulla via per Coira, in posizione cos�� felice che sempre, quando
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