prossimo tuo come te stesso" è alla fin fine il comando del
principale: ed egli sa bene che io non amo me stesso. Frattanto, come è
vero che quello è il mio prossimo! Io l'ho sempre sentito dal premere
che mi faceva d'attorno, pari ai gomiti di quattro o cinque vicini nella
calca dove ci ha ficcati il nostro mal genio, in un quarto d'ora di sciocca
curiosità. E il mondo è una calca, una moltitudine, una ressa di forze
invisibili, che d'ogni parte lavorano su te, per prenderti il posto che
occupi, per non lasciarti occupare il posto che desideri, fosse pure un
posto d'usciere. Si tira a tutto, e con la stessa arte da tutti; qualunque sia
il grado, o l'educazione, è sempre guerra sorda di agguati, d'insidie, di
tradimenti. Ognuno l'ha con te: più sei forte, o più ti credono tale, più si
affannano a soverchiarti, a tirarti giù, a darti il gambetto. Gl'interessi
che non hai offesi fischiano da tutti i pruneti, si avventano da tutte le
macchie; nessun briccone è più appostato di te dagli onest'uomini in
caccia. Se tu provassi a morire! oh, allora, lodato il cielo, una buona
rifiatata di mille petti, che si diffonderebbe dalla tua città, come un
soffio di primavera, a tutti i punti del "bello italo regno." Vivo, non
avevi scritto altro che birbonate; morto te, erano tutte maravigile. Ti
gabellavano per un asino? eccoti diventato un cigno; l'ultima tua ode
era degna di Pindaro. Prova a morire, e vedrai; ti faranno un funerale di
prima classe, e tutta una cittadinanza "dipinta di cordoglio" farà
spalliera al cortèo, mentre tu, felice grand'uomo, traballerai nel tuo
carro sotto una montagna di corone, che più non ebbe scudi addosso la
vergine Tarpeia, in premio del Campidoglio aperto ai Sabini. Quanto a
me, senti: ho già fatto testamento, e scritto in chiarissima forma: "Non
voglio discorsi, nè marce funebri; nè bugie, nè stuonature. Voglio
andare al mio ripostiglio di nottetempo; con due amici, se tanti me ne
saranno rimasti, i quali si prenderanno cura di vigilare che le mie ossa
vadano proprio al luogo assegnato, e un altro morto non mi rubi la
fossa." Con questo prossimo benedetto, non si sa mai quel che possa
succedere.
Idee nere, dirai. Ma io, se rammenti, le ho sempre avute. A certe cose
bisogna pensarci in tempo, per non esser poi colti alla sprovveduta.
Quella gran diavola della falce è così capricciosa! Già, donna anche lei;
ed io non voglio esser più corbellato. Errori, ne ho commessi molti, fin
troppi, cercando l'introvabile. Povere donne, del resto! Ossequiate,
lusingate, insidiate, ti amano per vanità: molte, se sei ricco, sentono il
bisogno di entrare nella tua casa; nessuna il desiderio di penetrare
nell'anima tua. Ed è strano contrasto; perchè noi uomini, chi più chi
meno, avremmo tutti la curiosità di penetrare nell'anima loro, anche a
costo di non trovarci niente. Così l'amore, rinunziando al piacere
dell'indagine psicologica, si riduce necessariamente ad uno scherzo, ad
un grazioso errore commesso qualche volta per ardore di temperamento,
più spesso per follia d'imitazione. Ah, il mondo non è più dei sensitivi.
Si fanno tante cose per consuetudine, per vezzo, per moda, non
ritrovandoci più il senso arcano dei loro principii; esempio l'andare in
campagna, un piacere estivo, che si compra senza gustarlo, senza
intenderlo, trasformandolo secondo l'uso della città. Dov'è strada piana,
gli uomini portano la bicicletta; dov'è lago, il sandolino; da per tutto il
lawn-tennis. In fin de' conti, meglio così; la campagna è tutta per me.
Sono miei i folti castagni del bosco; miei gli olmi e i salici, i fràssini e
gli ontàni del fiumo; mia la borraccina delle balze, donde si levano gli
argentei pennacchi dei cardi, rilucenti ad una spera di sole.
Questa campagna è bella, quantunque senza carattere. Salvator Rosa ci
perderebbe l'ispirazione tormentata e robusta, Claudio Lorenese la sua
placida e larga vena poetica. Non ci sono dirupi minacciosi, non
classiche aperture d'orizzonti lontani. Così niente fa pensare, tutto fa
vegetare; ottima cosa per me, che non ho più fantasia. Dov'è andata a
finire? Sicuramente, l'ho fatta correr troppo. L'uomo ha le sue quaranta
libbre di sangue e le sue quattr'once d'ideale: se egli sa farne un uso
discreto, bene; se no, addio roba. Io non iscrivo più una riga. Il mio
Don Giovanni dorme. Buon poema, che voleva esprimer la vita veduta,
collegandola coll'invisibile sentito! Non lo intendo più; ne rigiro per
ogni verso la tela, e non ci trovo il vivagno; vedo il contorno e mi
sfugge la linea, l'idea madre, che mi pareva già tanto chiara, originale e
profonda. Sono una rovina, e brutta, che per le rovine è il peggio. C'è
qui, sulla fine di un campo, lungo la strada maestra, una casupola ad
uscio e tetto, ma coll'uscio sfondato e il
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