Divina Commedia: Inferno | Page 9

Dante Alighieri
cuori accesi?.
Qui puose fine al lagrimabil suono.?E io a lui: ?Ancor vo’ che mi ’nsegni?e che di più parlar mi facci dono.
Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni,?Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca?e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni,
dimmi ove sono e fa ch’io li conosca;?ché gran disio mi stringe di savere?se ’l ciel li addolcia o lo ’nferno li attosca?.
E quelli: ?Ei son tra l’anime più nere;?diverse colpe giù li grava al fondo:?se tanto scendi, là i potrai vedere.
Ma quando tu sarai nel dolce mondo,?priegoti ch’a la mente altrui mi rechi:?più non ti dico e più non ti rispondo?.
Li diritti occhi torse allora in biechi;?guardommi un poco e poi chinò la testa:?cadde con essa a par de li altri ciechi.
E ’l duca disse a me: ?Più non si desta?di qua dal suon de l’angelica tromba,?quando verrà la nimica podesta:
ciascun rivederà la trista tomba,?ripiglierà sua carne e sua figura,?udirà quel ch’in etterno rimbomba?.
Sì trapassammo per sozza mistura?de l’ombre e de la pioggia, a passi lenti,?toccando un poco la vita futura;
per ch’io dissi: ?Maestro, esti tormenti?crescerann’ ei dopo la gran sentenza,?o fier minori, o saran sì cocenti??.
Ed elli a me: ?Ritorna a tua sc?enza,?che vuol, quanto la cosa è più perfetta,?più senta il bene, e così la doglienza.
Tutto che questa gente maladetta?in vera perfezion già mai non vada,?di là più che di qua essere aspetta?.
Noi aggirammo a tondo quella strada,?parlando più assai ch’i’ non ridico;?venimmo al punto dove si digrada:
quivi trovammo Pluto, il gran nemico.
Inferno · Canto VII
?Pape Satàn, pape Satàn aleppe!?,?cominciò Pluto con la voce chioccia;?e quel savio gentil, che tutto seppe,
disse per confortarmi: ?Non ti noccia?la tua paura; ché, poder ch’elli abbia,?non ci torrà lo scender questa roccia?.
Poi si rivolse a quella ’nfiata labbia,?e disse: ?Taci, maladetto lupo!?consuma dentro te con la tua rabbia.
Non è sanza cagion l’andare al cupo:?vuolsi ne l’alto, là dove Michele?fé la vendetta del superbo strupo?.
Quali dal vento le gonfiate vele?caggiono avvolte, poi che l’alber fiacca,?tal cadde a terra la fiera crudele.
Così scendemmo ne la quarta lacca,?pigliando più de la dolente ripa?che ’l mal de l’universo tutto insacca.
Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa?nove travaglie e pene quant’ io viddi??e perché nostra colpa sì ne scipa?
Come fa l’onda là sovra Cariddi,?che si frange con quella in cui s’intoppa,?così convien che qui la gente riddi.
Qui vid’ i’ gente più ch’altrove troppa,?e d’una parte e d’altra, con grand’ urli,?voltando pesi per forza di poppa.
Percot?ansi ’ncontro; e poscia pur lì?si rivolgea ciascun, voltando a retro,?gridando: ?Perché tieni?? e ?Perché burli??.
Così tornavan per lo cerchio tetro?da ogne mano a l’opposito punto,?gridandosi anche loro ontoso metro;
poi si volgea ciascun, quand’ era giunto,?per lo suo mezzo cerchio a l’altra giostra.?E io, ch’avea lo cor quasi compunto,
dissi: ?Maestro mio, or mi dimostra?che gente è questa, e se tutti fuor cherci?questi chercuti a la sinistra nostra?.
Ed elli a me: ?Tutti quanti fuor guerci?sì de la mente in la vita primaia,?che con misura nullo spendio ferci.
Assai la voce lor chiaro l’abbaia,?quando vegnono a’ due punti del cerchio?dove colpa contraria li dispaia.
Questi fuor cherci, che non han coperchio?piloso al capo, e papi e cardinali,?in cui usa avarizia il suo soperchio?.
E io: ?Maestro, tra questi cotali?dovre’ io ben riconoscere alcuni?che furo immondi di cotesti mali?.
Ed elli a me: ?Vano pensiero aduni:?la sconoscente vita che i fé sozzi,?ad ogne conoscenza or li fa bruni.
In etterno verranno a li due cozzi:?questi resurgeranno del sepulcro?col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.
Mal dare e mal tener lo mondo pulcro?ha tolto loro, e posti a questa zuffa:?qual ella sia, parole non ci appulcro.
Or puoi, figliuol, veder la corta buffa?d’i ben che son commessi a la fortuna,?per che l’umana gente si rabbuffa;
ché tutto l’oro ch’è sotto la luna?e che già fu, di quest’ anime stanche?non poterebbe farne posare una?.
?Maestro mio?, diss’ io, ?or mi dì anche:?questa fortuna di che tu mi tocche,?che è, che i ben del mondo ha sì tra branche??.
E quelli a me: ?Oh creature sciocche,?quanta ignoranza è quella che v’offende!?Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche.
Colui lo cui saver tutto trascende,?fece li cieli e diè lor chi conduce?sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende,
distribuendo igualmente la luce.?Similemente a li splendor mondani?ordinò general ministra e duce
che permutasse a tempo li ben vani?di gente in gente e d’uno in altro sangue,?oltre la difension d’i senni umani;
per ch’una gente impera e l’altra langue,?seguendo lo giudicio di costei,?che è occulto come in erba l’angue.
Vostro saver non ha contasto a lei:?questa provede, giudica, e persegue?suo regno come il loro li altri dèi.
Le sue permutazion non hanno triegue:?necessità la fa esser veloce;?sì spesso vien chi vicenda consegue.
Quest’ è colei ch’è tanto posta in croce?pur da color che le dovrien dar lode,?dandole biasmo a torto e mala voce;
ma ella s’è beata e ciò non ode:?con l’altre prime creature lieta?volve sua spera e beata si gode.
Or discendiamo omai a maggior pieta;?già ogne
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