Col fuoco non si scherza | Page 2

Emilio De Marchi
di inutile virtuosit��, quasi un pudico aborrimento d'ogni lezioso artifizio, tutto ci�� infonde nelle pagine del De Marchi quel fascino che ha la bellezza quando ci si affaccia nella sua semplice e genuina realt��.
Emilio De Marchi, mi piace ripeterlo perch�� �� il pi�� grande fra i titoli d'onore del nostro poeta, ha sempre accompagnato all'arte l'ispirazione morale e fu guidato, in tutte le sue opere, da un concetto educativo. Egli sentiva altamente la missione dello scrittore, e voleva che da ogni suo libro venisse un insegnamento che, purificando, ravvivasse i cuori. Quando egli parlava ai giovani, la sua parola aveva un accento paternamente affettuoso. Il maestro diventava un amico che aveva il segreto di toccar le corde pi�� intime del cuore. Ma l'idea morale regge ed anima non solo i suoi libri educativi, bens�� tutta l'opera sua.
Non si chiude nessun suo romanzo senza sentirsi migliori, perch�� pi�� inclinati all'indulgenza, alla piet�� per le umane debolezze, pi�� sensibili alla simpatia per la sventura, pi�� aperti all'influenza d'ogni grande e generoso ideale.--
Il fare un libro �� meno che niente Se il libro fatto non rif�� la gente
diceva il Giusti. A questa convinzione del poeta toscano, che era anche la sua, Emilio De Marchi �� rimasto fedele in tutte le manifestazioni del suo ingegno. Artista squisito, scrittore altamente civile e morale egli lascia una traccia duratura. Il suo spirito rimane nelle figure viventi di cui ha popolato il mondo della fantasia e del romanzo, rimane nei preziosi insegnamenti da lui sparsi a piene mani lungo il cammino, ahi troppo presto troncato, della sua laboriosa esistenza.
GAETANO NEGRI.

PARTE PRIMA.

I.
Due vecchi amici.
Cinque minuti prima dell'arrivo del battello, Beniamino Cresti era gi�� col suo inseparabile ombrello chiuso, che gli serviva di bastone, allo sbarco di Tremezzo in attesa di Massimo Bagliani. Per la circostanza il solitario misantropo del Pioppino aveva indossato un vestito d'un grigio chiaro tutto eguale, che insieme al cappello chiaro di paglia faceva comparire ancor pi�� scura la carnagione del volto e delle mani d'un color nero di terra lavorata.
Da qualche tempo i pochi amici canzonatori notavano che il solitario ortolano del Pioppino faceva degli sforzi straordinari per essere bello ed elegante. Ezio Bagliani, che tra i burloni era forse il pi�� feroce, voleva vedere in certe scarpe alla polacca che il Cresti portava con ostentazione, una specie di dichiarazione per la bella sua cuginetta che abitava al Castelletto. Altri nelle doppie suole e nei talloni alti di quelle scarpe volevan vedere lo sforzo d'un uomo corto di gambe per sollevarsi di qualche centimetro sul livello normale del lago. Cresti lasciava dire e si limitava a sogghignare di quel sorriso muto, che gli irritava le mandibole sporgenti senza arrivare a muoverle: o digrignava i denti o si lasciava trascinare a pungere il suo tormentatore col puntale dell'ombrello eternamente chiuso. In fondo sentiva che tutti gli volevan bene e che in un momento grave sapevan far conto dell'ortolano del Pioppino. Ezio Bagliani, per esempio, il pi�� dissipato di tutti, aveva pi�� d'una volta ricorso all'aiuto segreto di Beniamino Cresti, quando nelle sue strettezze di studente, non osava affrontare la faccia dura di pap��: e non sempre, pare, aveva restituito con precisione. Maggiore di lui una buona dozzina d'anni, il Cresti si permetteva di considerare l'allegro giovinotto quasi come un suo nipote, gli dava spesso consigli brevi, espliciti, opportuni, che non andavano sempre perduti, specialmente quando il giovane si gloriava della sua compagnia del caff�� Storchi e del Ravellino. La vita dissipata di Ezio, i suoi rapporti costosi con la famosa Liana non erano un mistero per Beniamino Cresti, che deplorava spesso sinceramente che un giovine di cos�� bell'ingegno, ricco, simpaticissimo, perdesse il suo tempo coi Lul�� e coi decadenti del Circolo dell'Asse di cuore, una combriccola di eleganti malviventi.
A Massimo Bagliani, zio di Ezio, oltre a un lontano rapporto di parentela lo legava un'antica amicizia fatta a Torino, quando l'uno studiava all'Accademia militare e lui attendeva agli studi di legge. Per quanto lontani d'indole e di studi, o forse appunto per questo, la loro buona amicizia era andata crescendo col tempo e colla distanza, che ��, come vuole il proverbio, il vento che fa crescere la fiamma. Le peripezie amorose di Massimo Bagliani l'avevano commosso: l'ingiustizia di cui era stato vittima aveva trovato nella naturale misantropia dell'amico Cresti un terreno preparato apposta per germogliare.
Gi�� poco inclinato a credere nella bont�� degli uomini (e cogli uomini, come quel predicatore, intendeva anche le donne), il caso di Massimo ribad�� nel cuore di Beniamino che un uomo �� lupo all'altro e che non si �� mai tanto sicuri come quando si �� soli. Per questo si era confinato in quel suo Pioppino, lass��, a coltivare cavoli e rose. Finiti gli studi legali avrebbe ben potuto percorrere una buona carriera negli uffici erariali, perch�� non mancava di una certa
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